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Roger Scruton, il vero conservatore Roberto Pecchioli

Recensione del 27 Novembre 2018. Il terribile problema della libertà di pensiero nell’era del totalitarismo invertito e dell’oicofobia che destituisce di valore l’eredità culturale comune.

Essere conservatori, prima che una scelta politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale. “Chi non pensa che lo scopo dell’esistenza non si realizzi nel breve istante, nel momento, nel tempo dell’esistenza stessa, è un conservatore”, scriveva Arthur Moeller Van den Bruck. Il conservatore “sa che la vita non è sufficiente a creare quel che si propone lo spirito, la forza decisionale, la volontà di un essere umano.” Il singolo uomo passa, ma permane l’insieme del nostro operato. Da questo punto di vista, si può dire che il conservatore possieda il senso della storia, a differenza del progressista che lo nega, o del reazionario -nel senso superficiale del termine- che si limita a opporsi in nome del passato, con moto contrario, a idee e eventi che modificano il presente.

Roger Scruton, l’intellettuale inglese autore di libri come Essere Conservatore, Il Bisogno di nazione, A political philosophy, presentato nella nostra lingua con l’equivoco titolo di Manifesto dei conservatori, può essere considerato il maggiore rappresentante del pensiero conservatore. La sua opera più significativa, The meaning of conservatism, non è tradotta in italiano. Docente universitario, personalità poliedrica dai molteplici interessi, musicista e musicologo, esperto di cucina e vino, filosofo e polemista acuminato, brillante conversatore, critico d’arte, ascoltato consigliere politico, gentiluomo di campagna molto english proprietario di una tenuta e allevatore di ogni genere di animali, appassionato ambientalista, incarna la più elevata tradizione del pensiero conservatore britannico, dopo Edmund Burke e Thomas Stearns Eliot, il poeta romantico Samuel Coleridge, Benjamin Disraeli e il conte di Salisbury, storico primo ministro tory a cui è intitolato il laboratorio politico di cui Scruton è animatore.

La sua scrittura non è mai oscura, attraversata dal tipico understatement inglese, l’attenuazione perseguita dei toni, pervasa dal pragmatismo insulare. Nemico dell’intellettualismo fine a se stresso, specie quello dei francesi alla Deleuze, Guattari, Althusser, ma ammiratore delle potenti costruzioni intellettuali della filosofia tedesca, non è un pensatore sistematico e gli si può rimproverare uno sguardo eccessivamente inclinato alla sua Inghilterra. E’ stato uno dei firmatari della Dichiarazione di Parigi del 2017, un atto di amore alla civiltà europea, alle sue radici e una scommessa sulla volontà di rigenerazione del nostro stanco continente, oltre e contro la sua riduzione a zona di libero scambio governata dalle pseudo leggi del denaro.

Se dovessimo sintetizzare il pensiero di Scruton, dovremmo citare un passo del Faust di Goethe: ciò che hai ereditato dai padri/ acquistalo per possederlo. E’ questo anche il limite dell’universo del professore inglese, una certa propensione difensiva, l’emergere solo a tratti di quel “conservatorismo creativo” capace di rinnovare i valori dei popoli che conferisce senso al sentimento, alla passione profonda, alla vocazione culturale che connota il conservatorismo non come ideologia, ma atteggiamento complessivo nei riguardi della realtà storica, estetica, religiosa, politica.

Di lui si apprezza la distanza profonda dal recinto liberale, nemico della prospettiva conservatrice. Scruton spinge a fondo la critica all’individualismo e all’economia come orizzonte unico, mostra l’infondatezza dei cliché del progressismo illuministico- costruttivistico moderno. E’ insuperato il capitolo di A political philosophy intitolato significativamente Spegnere la luce. Il suo pragmatismo lotta per non perdere l’anima, offrendo delle coordinate stabili alla libertà che non faccia del libero mercato (o dello Stato, specularmente) un feticcio a cui obbedire. Per lui, è necessario distinguersi dalla vulgata liberale indicando la felicità anziché la libertà come obiettivo da perseguire e considerando l’individuo e la sua libertà prodotti, non presupposti dell’ordine sociale.

In questo senso, stupisce il ruolo di consigliere di Margaret Thatcher, colei che trasformò definitivamente il Partito Conservatore britannico, gli antichi Tories, in un movimento liberale liberista. Scruton resta assai lontano dal relativismo contemporaneo, a cui reagisce in un brano quasi tomista o aristotelico di Guida filosofica per tipi intelligenti: “La filosofia esiste solo grazie alla domanda: perché? I perché affiorano nel contesto della discussione razionale; la discussione razionale ha bisogno del linguaggio; il linguaggio è organizzato dal concetto di verità; la verità è una relazione tra pensiero e realtà, e la realtà è oggettiva, non è creata dai nostri concetti”. Un realismo che Scruton estende alla sfera giuridica, avvicinandosi alla scuola storica tedesca di Savigny e Von Gierke. “Il diritto positivo di un Paese racchiude in sé l’immagine di uno specifico ordinamento sociale storico e dice fedeltà ai modi di vita descritti da tale ordinamento”. 

Tale posizione lo rende naturale avversario del sistema europeo dominante, stroncato in un altro capitolo di A political philosophy, Neolingua e eurocratese. La “lingua di legno” europoide diventa bersaglio di una critica serrata, nella quale il lessico degli eurocrati è smascherato come schermo per proteggere non un’ideologia, bensì un sistema di privilegi di casta. Analizza il termine “sussidiarietà”, concludendo che nel suo nome l’Unione Europea “destituisce di fatto la sovranità che pretende di garantire e avvolge l’intera idea di sovranità in un impenetrabile mistero.” Il principio di sussidiarietà dovrebbe garantire che le decisioni siano prese al livello più basso compatibile con i progetti dell’Unione, ma chi stabilisce qual è il livello e chi decide su di esso? La risposta è tautologica, è l’apparato dell’Unione Europea, inclusa la Corte di Giustizia. Analogo mistero è racchiuso in parole come solidarietà o sintagmi quali unione sempre più stretta e acquis comunitario. “Parole e frasi che fanno pensare a un processo di guadagno legale, quando in realtà il vero significato è perdita.”

Tormentato è il rapporto di Scruton con Dio e la trascendenza. Tutto il suo pensiero lotta con l’idea di Dio. Non lo può escludere, pena il suicidio intellettuale, ma non ha gli strumenti filosofici e la semplicità d’animo per ammetterla. Eppure, la sua ricerca è costante, e riecheggia un pensiero di Pascal “tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”. Scruton prova nostalgia della civiltà cristiana che ispirò le cattedrali, un sentimento analogo a quello di John Ruskin nelle Pietre di Venezia e nelle Sette Lampade dell’Architettura, il medesimo amore per lo stile gotico attaccato dai modernisti dell’arte, parte del processo di secolarizzazione della società, ma non riesce a spingersi oltre la volontà di resistere ai “nudi sassi del mondo” dell’amato poeta Matthew Arnold. Paradossalmente, più religioso appare Pier Paolo Pasolini, nella sua lirica estrema in lingua friulana A un giovane fascista, a cui assegna tre compiti: difendere, conservare, pregare.

Più efficace Scruton è nell’impegno contro la globalizzazione dei luoghi, delle coscienze, delle idee, in nome di quel sentimento tutto britannico della lealtà verso le proprie origini che è insieme custodia, attaccamento e serena volontà di difesa anche in armi. C’è una enorme differenza rispetto all’ideologia bellicosa e totalitaria espressa dall’abate Sieyés nel suo elogio giacobino della “nation” fatta persona collettiva. “La nazione è la cosa più importante. E’ la fonte di ogni cosa. La sua volontà è sempre legale (…) e rappresenta sempre la legge suprema”.

Roger Scruton ha inventato un neologismo che ritrae perfettamente il sentimento prevalente della nostra civiltà terminale: oicofobia, ovvero l’odio delle proprie origini, della casa natale (oìkòs, casa). E’ l’irrefrenabile tendenza a denigrare la storia comune, a schierarsi, in qualunque situazione conflittuale con “loro” contro di “noi”. Tutto ciò che riguarda la civiltà europea e cristiana viene insegnato come una storia di vergogna e prevaricazione. Il sentimento è vivo soprattutto tra gli intellettuali di sinistra, bersaglio privilegiato di Scruton. In Gran Bretagna è tra gli animatori della resistenza contro l’incredibile lavaggio del cervello praticato agli studenti, una rieducazione unidimensionale, un terreno in cui si aggrediscono le idee in nome di un’idea invertita di libertà.

“George Orwell parlava di una tendenza della natura umana controllare. Vide i comunisti nella guerra civile spagnola e il loro controllo dello spirito. E’ molto simile a quanto accade oggi.”  In nove università inglesi su dieci si impongono restrizioni a idee, libri, studiosi. Dalla biblioteca dell’università gallese di Aberystwyth è stata bandita addirittura la Bibbia. La via è la stessa della distruzione della biblioteca di Alessandria da parte del califfo Omar o dei roghi dei libri a Berlino, cambiano solo le motivazioni. La censura moderna figlia dell’oicofobia attacca gli autori maschi, bianchi, eterosessuali, e, ohibò, eteropatriarcali. Non pochi studenti chiedono di proscrivere persino il comunista Sartre e l’ebrea Hannah Arendt. L’ignoranza al potere al grido di più Dannati della Terra (Frantz Fanon) e meno Cartesio.

Scruton, dicevamo, non ha mai eluso il problema di Dio, anzi un suo libro si intitola Il Volto di Dio. La tesi centrale è che eliminando le questioni di fede, il fragile Io contemporaneo diventa incapace di conoscere se stesso. Dio è infatti ineludibile, o eludibile al prezzo di creare una voragine, un abisso spalancato che stravolge il volto dell’uomo e quello del mondo. La rimozione del divino ha per lui molte conseguenze, tra le quali la folle credenza che le neuroscienze sostituiscano la filosofia come capacità di spiegare la mente umana. La cultura consumistica è una cultura senza sacrifici, il divertimento è riadattato a oggetto dei nostri desideri “per cui è inevitabile che le manifestazioni di timore sacro siano una rarità. E’ questo, e non gli argomenti degli atei, a causare il declino della religione”.

Molto inglese per pragmatismo è la difesa del matrimonio: “La famiglia è l’unico modo conosciuto per riprodurre noi stessi. E non intendo solo la riproduzione in senso biologico, ma anche culturale, morale e politico“.  Il suo conservatorismo è una filosofia dell’attaccamento; siamo attaccati alle cose che amiamo e desideriamo proteggerle dalla decadenza, scrive in Essere conservatori. Le chiavi per difenderle sono l’appartenenza a un focolare comune aperto al mondo, fermo nei suoi fondamenti civici e culturali e quelli che definisce “domini di valore”, le tradizioni, i costumi e le istituzioni che consacrano e promuovono la nostra reciproca responsabilità e attraverso i quali gli esseri umani creano valori. Tra di essi risaltano soprattutto la famiglia, la religione, la società civile, la scuola, il lavoro “significativo”, un concetto molto originale, l’ozio creativo, le festività comuni, ma anche la conversazione, l’arte, la bellezza, l’allegria conviviale. 

L’ultimo capitolo di Essere conservatori è particolarmente significativo del mondo interiore di Scruton, forse anche di taluni limiti del suo orizzonte. E’ un discorso “di commiato che proscrive il dolore, ma ammette la perdita.” Nella nostalgia per i prati verdi che fiancheggiavano le ferrovie britanniche, adesso invase da spazzatura, bottiglie di plastica e vecchie cose abbandonate non si intravvede la speranza di un riscatto, ma la pena del superstite o il rimpianto per il buon tempo antico. Vale la pena ricordare piuttosto il vigoroso attacco contro le élites apolidi che vivono come se il futuro non li riguardasse, e riprendere in mano la Dichiarazione di Parigi, una robusta chiamata alle armi contro “il materialismo vuoto”, la necessità di liberarci della tirannia della falsa Europa, con l’avvertenza che il rinnovamento inizia con la riflessione teologica e il riconoscimento dell’identità culturale cristiana di fronte alle false pretese dei multiculturalisti. 

Vigorosa è la sua protesta nei confronti dell’attacco agli Stati nazionali condotto attraverso i trattati e il potere di organizzazioni come il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio). Vibra di indignazione contro multinazionali come Monsanto che si permettono di considerare la sovranità nazionale un ostacolo al libero commercio e propongono di perseguire legalmente i governi nazionali se negano i “diritti di investitore”.  Non potrebbe essere più grande la distanza dall’angolazione liberale, enfatizzata anche dalla posizione ambientalista di Scruton, acceso difensore della natura. L’ecologia sociale fa parte dell’agenda del conservatorismo, interessato ad una gestione parsimoniosa delle risorse, a partire da quelle naturali e ambientali.

Il proposito della politica, nell’ottica conservatrice, è mantenere una vigile resistenza nei confronti delle forze entropiche che erodono la nostra eredità sociale ed ecologica. Le sedicenti democrazie sembrano raggiungere un equilibrio solo in condizioni di crescita economica, senza considerare le ripercussioni sull’ambiente.  Il conservatore riconosce che l’equilibrio ambientale è parte di un durevole ordine sociale. Nel Manifesto un brano, derivato dal pensiero di Edmund Burke, getta luce sull’ universo etico di Scruton: il nostro legame con il mondo “non è affatto un contratto, piuttosto una relazione di curatela nella quale i benefici ereditati sono conservati e poi tramandati ad altri.” La realtà, aggiunge, è che esiste una ragione schiacciante anche per il degrado ambientale: l’avidità umana. Calorosa è la difesa di una vita lenta, conviviale, del buon mangiare, dei bassi consumi di energia in una società dipendente dal fast–food, simbolo di un mordi e fuggi generalizzato, la corsa insensata verso l’indeterminato.

Più forte e determinato si muove il pensiero di Scruton allorché esprime con accento ispirato la sua fede nella vita morale, i cui pilastri sono il valore, la virtù e il dovere, e manifesta rispetto per il sentimento della pietà, un residuo della religione prossimo alla carità. L’attacco nei confronti dell’utilitarismo prosegue nella rivendicazione dell’uomo come essere morale, un atteggiamento che ricorda Aristotele, il suo massimo ispiratore. L’essere morale vive come soggetto e oggetto di giudizio, a differenza dell’essere non morale che semplicemente si lascia vivere. Per lui, l’utilitarismo trascura l’elemento distintivo della nostra condizione, la radicata propensione a considerarci esseri morali legati da relazioni di responsabilità, non di dominio.

L’etica della virtù deve tenere conto di un altro pilastro del giudizio morale, il concetto di dovere. C’è bisogno di un’antropologia morale che insegni gli obblighi anziché attribuire diritti. Queste convinzioni allontanano Scruton dal campo dei contrattualisti per inserirlo in una sorta di comunitarismo temperato dall’alta considerazione della legge, specie nella forma anglosassone del common law, il diritto comune e consuetudinario. Originale è la sua idea del matrimonio, che neanche le leggi laiche interpretavano in senso esclusivamente contrattuale. Con un’ironia sottile venata di distaccata amarezza, scrive, a proposito del crollo dell’istituzione coniugale, “non sorprende che quando il matrimonio diventa solo un timbro ufficiale su un contratto strettamente privato, la gente non ne veda l’utilità”.

Penetranti le osservazioni sulla rivendicazione delle nozze omosessuali. Poiché il matrimonio si è sviluppato sull’idea della differenza sessuale e tutto ciò che essa significa, rendere questa caratteristica incidentale significa cambiare il matrimonio fino a non riconoscerlo più. I gay vogliono il matrimonio per ottenere l’avallo sociale che comporta. Se noi accettiamo tale unione, la priviamo del suo significato sociale. La censura avanza e non è più “legale” opporsi. La scoraggiata conclusione è che “fra adulti consenzienti solo in privato sarà possibile coltivare il pensiero che il matrimonio omosessuale non sia affatto un matrimonio “.

Riemerge il terribile problema della libertà di pensiero nell’era del totalitarismo invertito e dell’oicofobia che destituisce di valore l’eredità culturale comune. Anche su questo versante, il giudizio di Scruton è netto.  Prende le distanze dalla condizione postmoderna, ultima impresa della cultura del rifiuto balzata alla ribalta della storia nel 1968, convinta che la civiltà europea sia un fardello di cui liberarsi; per approdare al nulla, tutt’al più a verbose “metanarrazioni” in cui libertà e progresso diventano sinonimi di vuoto interiore, disordine morale, macerie sociali e comunitarie.  Non esistono più verità, ma solo interpretazioni. Allora, perché credere a opinioni folli come quelle di Judit Butler e Andrea Dworkin secondo cui genere e sessualità sono costrutti sociali, o prestare attenzione all’affermazione della femminista Luce Irigaray che E = mc2, la celeberrima formula di Einstein che stabilisce l’equivalenza e il fattore di conversione tra energia e massa è un‘equazione sessuata della fisica maschile che privilegia le entità solide contro quelle fluide?

In fondo, e sembra di vedere il professore mentre scuote la testa, il problema del nostro tempo è la credenza che l’unica verità sia l’utile. Viviamo in una fase estrema dell’illuminismo, uno scientismo che scaccia tutte le ombre al prezzo di un “inquinamento luminoso” che impedisce di vedere le stelle. La scienza a cui è affidato ogni destino finisce per negarci anche lo sguardo sul Male, che esiste, riassunto nelle parole di Mefistofele: sono lo Spirito che sempre nega. La modernità ha inventato la macchina del male, Auschwitz, i Gulag, la bomba atomica, le distopie alla Orwell, lo scatenamento delle forze infere dell’uomo, la Tecnica come destino e comando impersonale. 

Siamo penetrati, sembra suggerire Scruton, nella terra desolata a cui ci aveva introdotto il gigante della poesia e del conservatorismo del secolo trascorso, Thomas S. Eliot. Il percorso filosofico di Scruton si conclude con il resoconto della nostra crisi spirituale, ma anche con l’evocazione del messaggio di speranza che ci è donato dai Quattro Quartetti di Eliot, culmine della vena del poeta. Eliot, bussola finale di Scruton, prende una parola e da essa estrae il mondo, cercando di cogliere ciò che è permanente, l’immutabile che abbiamo il dovere di conservare e rafforzare. E’ la lezione tratta e trasmessa dal colto conservatore di Little Gidding, il quartetto che è una poesia religiosa, un’atmosfera e una fede morale.

Roger Scruton ci indica la strada cedendo il passo a un maestro più grande di lui, Eliot appunto, con gli squarci straordinari di poesia e di attaccamento, i versi immortali e dunque conservatori dei Quartetti, gioielli di un pensiero forte. “Noi nasciamo coi morti; essi tornano e ci portano con loro/ Il momento della rosa o quello del tasso/ hanno uguale durata. Un popolo senza storia è una trama/ di momenti senza tempo. Così, mentre si fa buio/ un pomeriggio d’inverno, in una cappella appartata/ la storia è adesso.” Il vero conservatore non può che serbare nel cuore, a suggello dei principi di un’intera vita, il messaggio liturgico degli ultimi versi di Little Gidding: “noi cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’esplorazione/saremo al punto di partenza/ sapremo il luogo per la prima volta.”

Roberto Pecchioli il 27 Novembre 2018

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